ANALISI CRITICA DELLA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE N. 22270/2016 DEL 3.11.2016

 

Nel presente contributo audio-video, a cui si rinvia per l’approfondimento di tutti i temi trattati, l’Avv. Francesco Roli analizza con chiarezza e precisione la sentenza in commento, la quale, oltre a richiamare i medesimi concetti espressi dalla precedente pronuncia n. 12965/2016 del 22.6.2016, effettua, altresì, un approfondito excursus sulle commissioni di massimo scoperto e sulla loro definizione tecnico-giuridica.

 

La sentenza n. 22270 del 3.11.2016, confermando l’appellata pronuncia della Corte d’Appello di Trieste, viene chiamata a decidere sulla annosa questione se le CMS vadano o meno incluse nel calcolo del TEG al fine di effettuare l’accertamento della natura usuraria del rapporto di conto corrente; la Suprema Corte, rigettando l’appello proposto dai due garanti del correntista, conferma la pronuncia della corte territoriale friulana, confermando che, per quanto concerne i rapporti di conto corrente esauritisi anteriormente all’entrata in vigore della L.2/2009, le CMS non vadano incluse nel calcolo del TEG al fine di valutare il carattere usurario del costo per il correntista del rapporto di conto corrente affidato.

 

Unitamente a tale arresto giurisprudenziale, la Corte, come anticipato, effettua una digressione circa la definizione ed il significato delle CMS, nonché circa la loro disciplina normativa. In particolare, gli Ermellini evidenziano come sia ancora aperta e dibattuta, ai fini del computo del tasso d’interesse, “la questione relativa all’individuazione delle componenti da tenere in conto ai fini della valutazione relativa al superamento del c.d. tasso soglia” e se, conseguentemente, debba essere ricompresa o meno nel conteggio anche la CMS, introdotta dalle norme bancarie “quale corrispettivo della disponibilità concessa dalla banca al cliente per un determinato periodo di tempo o a tempo indeterminato, e calcolata in percentuale, a seconda dei casi, sulla differenza tra l’importo accordato e quello effettivamente utilizzato o su quest’ultimo”.

 

Prosegue la Corte esplicitando che, pur essendo il fondamento causale delle CMS ancora oggetto di contestazione, esse possono costituire alternativamente:

 

1.    “un accessorio che si aggiunge agli interessi passivi (come potrebbe inferirsi anche dalla circostanza che, nella prassi bancaria, essa è conteggiata sull’esposizione debitoria massima raggiunta, e quindi sulle somme effettivamente utilizzate, nel periodo considerato, solitamente trimestrale, nonché dalla pattuizione della sua capitalizzazione trimestrale); 

 

2.    la remunerazione dell’obbligo della banca di tenere a disposizione dell’accreditato una determinata somma per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dalla sua utilizzazione, ed allora dovrebbe essere conteggiata alla chiusura definitiva del conto”.

 

La Corte ritiene corretta e condivisibile la seconda definizione proposta, facendo richiamo alle indicazioni emergenti dalle istruzioni della Banca d’Italia ed alle successive rilevazioni del tasso soglia, in cui è stato puntualizzato che la commissione in esame non deve essere computata ai fini della rilevazione dell’interesse globale di cui alla legge n. 108 del 1996 (cfr. Cass., Sez. 3, 6 agosto 2002, n. 11772; v. anche Cass. Sez. L 18 gennaio 2006, n. 870; 26 gennaio 2014. n. 4518).

 

La Cassazione, tuttavia, ritenendo condivisibile la seconda definizione, si discosta apertamente dalla prassi e dalla realtà concreta della tenuta dei rapporti, nei quali, come ben noto a tutti gli operatori del settore bancario, le CMS non vengono mai conteggiate alla chiusura definitiva del rapporto, bensì trimestralmente.

 

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In particolare, prosegue la Corte per giustificare la propria decisione, “la Banca d’Italia, dapprima in una circolare emanata il 1 ottobre 1996 ed in seguito nelle istruzioni impartite per la rilevazione del tasso effettivo globale medio (aggiornamento al febbraio 2006), ha ribadito che la commissione di massimo scoperto, definita come il corrispettivo pagato dal cliente per compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto, e calcolata in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento, non entra nel calcolo del tasso effettivo globale, ma viene rilevata separatamente, ed espressa in termini percentuali”.

 

Tuttavia emerge con assoluta chiarezza ed evidenza come, la definizione delle CMS data da Banca d’Italia ed improvvidamente richiamata dalla Cassazione, nulla abbia a che vedere con la definizione ritenuta corretta e condivisa dalla stessa Suprema Corte, in quanto secondo Banca Italia la remunerazione è dovuta alla banca/intermediario per l’effettivo scoperto (da intendersi come punta massima di esposizione e non come scoperto extra-fido) verificatosi per l’utilizzo della provvista da parte del correntista, mentre secondo la Cassazione detta remunerazione sarebbe giustificata per la semplice messa a disposizione di una determinata somma, a prescindere dall’effettivo utilizzo della stessa.

 

Orbene, è lampante la clamorosa differenza tra le due definizioni, tanto sotto un profilo puramente concettuale, quanto, a maggior ragione, sotto un profilo pratico e applicativo.

 

 

Ciò posto è evidente che se la CMS viene applicata, entro il limite dell’affidamento, come onere remunerativo per la punta massima di effettivo utilizzo della provvista, di fatto viene a costituire una duplicazione dell’interesse e quindi viene a difettare della causa, con conseguente nullità, ex artt. 1418 e 1325 c.c., per mancanza di uno degli elementi essenziali del contratto, qual è, appunto, la causa.

 

Al netto di tale più che giusta e rilevante osservazione, ritornando al testo della pronuncia in esame, la Corte conclude la propria motivazione di rigetto del ricorso, ribadendo, come già avvenuto con la sentenza n. 12965/2016 del 22.6.2016, come alla L. 2/2009 (di conversione del D.L. 185/2008) – la quale “attribuisce rilevanza, ai fini dell’applicazione dell’articolo 1815 c.c., dell’articolo 644 c.p., e della L. n. 108 del 1996, articoli 2 e 3, agl’interessi, alle commissioni e alle provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente” – debba essere attribuito un ruolo di norma innovativa rispetto alla precedente legislazione e non di interpretazione autentica della L. 108/96, con la conseguenza che, “con riferimento ai rapporti esauritisi in data anteriore all’entrata in vigore della legge di conversione, la determinazione del tasso effettivo globale, ai fini della valutazione del carattere usurario degl’interessi applicati, deve aver luogo senza tener conto della commissione di massimo scoperto”.

 

Tale arresto giurisprudenziale, simile in tutto e per tutto a quello del 22.6.2016 già criticato e commentato dall’Avv. Roli nel precedente contributo audio/video, poggia integralmente sul (quanto mai non condivisibile e deprecabile) principio di omogeneità, già oggetto di analisi e commento dell’Avv. Roli dedicato alla sentenza n. 12965/2016 del 22.6.2016 e che, per comodità del lettore, si riporta in nota[1].

 

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[1] Il principio di omogeneità, nella materia in esame, si sostanzia nella necessaria applicazione delle regole dettate da Banca Italia per rilevazione TEGM anche ai fini del calcolo del TEG; pertanto, in ottemperanza a tale principio, posto che le CMS non vengono rilevate nel calcolo del TEGM, non possono del pari essere considerate ai fini del calcolo del TEG, al fine di non confrontare elementi disomogenei. Alla luce di questo principio se si voglia valutare la natura usuraria della CMS occorre confrontare le stesse con il tasso soglia di riferimento per le CMS, introdotto, arbitrariamente da Banca Italia a far data dal 2 dicembre 2005, e non, pertanto, considerando le CMS nel TEG e con il tasso soglia stabilito ex lege.

Detto principio, sommariamente innanzi espresso, non può essere condiviso per le seguenti ragioni:

a)        Stante quanto espresso al punto 2), le norme di legge volte a disciplinare il calcolo del TEG e del tasso soglia non possono essere poste sul medesimo piano delle norme secondarie emesse da Banca d’Italia, con conseguente inapplicabilità del principio in esame;

b)        il tasso soglia, per ciascuna categoria di rapporti, è unico e non possono essere individuati altri tassi soglia (es. tasso soglia di mora e/o tasso soglia CMS) da soggetti diversi che non siano il legislatore stesso, con conseguente irrilevanza degli eccessi creativi realizzati da Banca d’Italia;

c)        se si dovesse tener conto delle esclusioni operate da Banca d’Italia nelle istruzioni per il calcolo del TEGM non sarebbe possibile rilevare con correttezza il TEG. Infatti, se da un lato le istruzioni escludono dalle rilevazioni i tassi più alti possibili (di sconfino, incaglio e sofferenza), dall’altro non sarebbe possibile non considerare detti tassi ai fini della valutazione del superamento del tasso soglia.

Il principio di omogeneità, in altre parole, consente, in linea teorica di confrontare elementi omogenei, ma in realtà rappresenta lo strumento identificato dalle banche al fine di modificare a piacimento il limite di soglia e/o il valore del TEG, con evidente violazione dei principi di legittimità e di certezza del diritto, palesandosi così, con massima chiarezza, per la sua inapplicabilità ed illegittimità.

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